Corto circuito

di Raffaella Vitulano

Le fabbriche del mondo vanno in corto circuito. E non solo in senso figurato. Ieri le autorità pakistane hanno accusato di strage, spiccando un mandato di cattura, i tre proprietari dello stabilimento tessile di Karachi che martedì sera ha preso fuoco causando la morte di almeno 300 operai. Molti di loro si trovavano in un enorme locale nel sottosuolo della fabbrica, dal quale era impossibile fuggire. L'abbigliamento destinato all'export va in cenere; i corpi dei lavoratori vengono ricomposti sotto teli a stampa della fabbrica, che sorge nella zona industriale di Baldia Town. La tragedia nazionale deve però far riflettere soprattutto sui comportamenti globali e sui committenti, che affidano a contoterzisti privi di scrupoli produzioni senza controlli. L'Organizzazione Internazionale del Lavoro sottolinea la necessità di prendere misure concrete per prevenire simili tragedie. Bruciano abiti, scarpe, persone. Ma l'import europeo è sempre più pakistano e quello di Berlino parla sempre più cinese. Nel 1993, 188 lavoratori, per lo più donne, morirono in una fabbrica di giocattoli in Thailandia. E a 20 anni da quell'episodio siamo ancora qui a chiedere il rafforzamento delle misure per migliorare la sicurezza e la salute nelle officine oscure e tossiche del mondo. In tale contesto, scottano le dichiarazioni sul voto di ieri del Parlamento Europeo sull'abolizione dei dazi per i prodotti tessili e di abbigliamento pakistani. Una decisione che qualcuno considera uno "scandaloso pretesto" dei diritti umani dopo le alluvioni di due anni fa. Pur consapevole dei danni che questa decisione produrrà sull'industria europea, credo che la questione vada comunque affrontata in un'ottica più complessa, o in corto circuito finirà il mercato del lavoro. E piuttosto che far risalire il Pakistan dall'abisso, globalizzeremo la miseria.

 (14 settembre 2012)
 
r.vitulano@cisl.it

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