L'insostenibile leggerezza delle multinazionali

di Raffaella Vitulano

E’ partita la grancassa: media all’unisono esaltano il Tpp. il più grande accordo di ”libero scambio” della storia recente siglato il 5 ottobre tra gli Usa ed 11 paesi del Pacifico. Leggendo tra le (poche) righe di un testo permeato da una più o meno cupa segretezza, il premio Nobel Joseph Stiglitz, in un articolo a quattro mani con Adam S. Hersh pubblicato su Project Syndicate, taglia corto: questo è un accordo che niente ha a che fare con la concorrenza e il libero commercio, quanto piuttosto con gli interessi e per conto delle grandi multinazionali che ormai da tempo hanno catturato i governi. E questo relativamente ai diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, così come per quelle del tabacco, ad esempio. In realtà, le disposizioni contenute nel Tpp limiterebbero la libera concorrenza e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo, un vero e proprio anatema per il libero commercio. Ma un’oligarchia - tanto per cambiare - ci guadagnerebbe: in base ai nuovi sistemi di regolazione delle controversie tra investitore e Stato (Isds), gli investitori stranieri acquisiscono nuovi diritti per citare in giudizio i governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sui regolamenti che a loro avviso diminuiscono la redditività dei loro investimenti. Capite? Il business, in pratica, ha il diritto di scavalcare le leggi nazionali (o i brandelli di quel che di loro resta). Le aziende saranno in grado di citare in giudizio i governi con vergognose procedure di risoluzione delle controversie tra investitori e Stato per proteggere i loro profitti. Per Stiglitz non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che gli accordi internazionali dell’America creino un commercio gestito invece che un libero commercio. Questo è ciò che accade quando il processo decisionale è precluso alle parti portatrici di interessi non-commerciali, per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso. In altre parole, il Tpp porta avanti il suo programma, che nella pratica contrasta il libero commercio e i diritti, dei consumatori come dei lavoratori. Per la Confederazione internazionale dei sindacati, ad esempio, l’accordo di partenariato Trans-Pacific è ”un buon esempio di avidità aziendale”. Il testo finale dell'accordo non è ancora accessibile al pubblico, ma la divulgazione di alcuni passaggi ha suscitato grande preoccupazione tra i sindacati e altri gruppi della società civile. I negoziati estremamente discreti hanno offerto una posizione vantaggiosa ad aziende potenti, la cui influenza è evidente nell’accordo. Ancora una volta i governi hanno anteposto gli interessi della finanza e operazioni di lucro a quelli dei cittadini comuni, accettando ancora di più la deregolamentazione finanziaria. Scavando, si scopre poi che il Tpp potrebbe effettivamente frenare gare pubbliche mediante regole internazionali altamente restrittive che mettono il concetto di "competitività" al di sopra degli obiettivi di politica pubblica, come la creazione di occupazione, tutela dell’ambiente, diritti umani e dei diritti dei lavoratori in aggiudicazione degli appalti.
Siamo al delirio commerciale. Prossimamente la grancassa si scatenerà sul Trattato commerciale negoziato in gran segreto tra Usa ed Unione europea, il Ttip. Arriveranno nuovi grandi titoli trionfalistici e qualche innegabile dubbio nascosto solo tra le ultime righe. Magari l’eco durerà qualche giorno. Poi, tutto il polverone andrà sotto il tappeto. Come sempre in questa società anestetizzata.
Da Air France al dieselgate, i Paesi europei non possono più permettersi una nuova recessione. Eppure in nome del profitto si è ormai pronti a sacrificare quel che resta di una Disunione europea zoppa e sbrindellata, priva di orgoglio e ferita nel suo welfare, che tanto negli anni l’aveva erta a simbolo mondiale. Forse la distruzione di Stati e nazioni senza ricomporli in un nuovo assetto non è stato un errore. Magari è stata una scelta deliberata, una strategia. Peggio sarebbe se fosse un errore: confermerebbe la supina incompetenza di chi oggi viene acriticamente solleticato anche da operazioni nella coalizione Nato per cominciare a bombardare le posizioni dell’Isis in Iraq prima che cadano per mano russa nella Siria (leggi Blondet).
Nel mezzo della tempesta geopolitica ed economica, l’Italia resta nel torpore, confidando (ingenuamente o ambiguamente) di essere centrale nello scacchiere mediorientale: magari perché il nostro paese è in corsa per tornare nel 2017-2018 nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, chissà. In politica estera, ha scritto Sergio Romano, si possono dare i calci, ma si rischia di rimanere con la gamba alzata per un tempo più lungo di quel che si crede. Ma questa è un’altra storia. O è sempre la stessa del Ttip?

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