Business is business. E gli squali esultano

 di Raffaella Vitulano

Chiuso il sipario su Davos, le tensioni mondiali stringono ancora più il cappio: 60 persone o poco più possiedono patrimoni esattamente quanto 3.6 miliardi di poveri. Cifre che ormai non scuotono più le coscienze. Men che mai quelle del patron di Black Rock - il massimo fondo di investimenti finanziari del mondo, con quasi 5 miliardi di dollari di gestione di attivi-, Larry Fink, che da inizio 2016 si frega le mani davanti all’emorragia di perdite che ha contagiato le borse di tutto il mondo. Fink attende paziente la loro débâcle, per riacquistare come uno squalo a prezzi di saldo. BlackRock esulta per ”il sangue che scorrerà per le strade” della finanza globale, pronosticando che il valore delle azioni potrebbe affossarsi di un altro 10%.  Il presidente del Consiglio del Ticino, Pierre Rusconi, vaticina che quest’anno il mondo rischia di vivere una crisi più grave ancora di quella del 2008, perché questa volta vedrebbe coinvolti anche i paesi dei mercati emergenti. I mercati finanziari sono del resto drogati. Un’altra bolla è stata creata sui mercati, a danno di molti e a vantaggio di pochi. I soldi immessi dalle banche nazionali per rilanciare l’economia non sono arrivati alle aziende che producono e si sono fermati alla finanza che li ha utilizzati in modo speculativo. Allo stesso modo in cui è stato fatto con i subprime nel 2008. Né più, né meno. Le crisi, tuttavia, non spaventano Draghi, che proprio a Davos ha ammesso che la Ue è diventata sempre più stretta attraversando una crisi dopo l’altra e che ”una buona crisi” non va sprecata. Concetto precisato anni fa da Mario Monti: “Abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti”: ma può davvero esistere una  ”buona” crisi  mondiale che non mandi  famiglie sul lastrico, faccia chiudere aziende, bruci le aspettative dei giovani, aumenti il numero dei disoccupati, cancelli sistemi sanitari? I governi eletti che hanno annunciato cambiamenti sono stati zittiti. Un anno dopo il suo arrivo, il partito di Syriza sta alacremente applicando quelle stesse politiche di austerità che un tempo disprezzava.
Sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si ricorda giustamente l’Olocausto; si ricorda (poco) che il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa liberava Auschwitz dal nazismo pagando con 20 milioni di morti. Quel che resta di una Disunione europea oggi si muove con lacrime e sangue sui confini continentali, dimenticando popoli e Storia.
 Senza tener conto di pericolose accelerazioni belliche, l’attenzione dei media va più alle dichiarazioni di guerra del coccodrillo finanziario George Soros alla valuta cinese che non ai morti di ogni conflitto in atto.  La svolta epocale di Pechino, il passaggio a un modello economico incentrato più sui servizi e i consumi (come in Corea, Taiwan e Giappone) che sugli investimenti, scatena nuovi appetiti. La geopolitica crea a sua volta - e non è un caso - nuove opportunità. Pensiamo alla fine delle sanzioni in Iran, che apre un mercato interessante per tutte le aziende. Nell'ex Paese dello Scià la manodopera locale assicura affari con un tasso di disoccupazione che sfora il 40% nella fascia dei giovani al di sotto dei 35 anni, e la remunerazione totale media annua di un operaio che viaggia attorno ai 3.705 euro e quella del personale impiegatizio a 6.400 euro circa.
Business is business. Le guerre finanziarie servono quanto quelle sul terreno. L'amministrazione Obama ha approvato una massiccia vendita di migliaia di bombe guidate e missili per i nuovi F-16 dell’Iraq per due miliardi di dollari. Ed è di ieri la notizia che ”la Russia rappresenta la principale minaccia per la sicurezza in Europa, ciò richiede un nuovo dispiegamento militare nel Vecchio Continente, indebolito dopo la fine della guerra fredda”. È questa la conclusione dell’United States European Command o Eucom in un nuovo rapporto sulla nuova strategia delle forze Usa nel Vecchio Continente. Soltanto quattro anni fa, Eucom - scrive l’analista militare Franco Iacch - era considerato una reliquia della guerra fredda. Oggi, invece, il comando con sede a Stuttgart, in Germania, ritorna prepotentemente in primo piano. Nonostante le richieste, il Pentagono potrebbe decidere di non potenziare la presenza in Europa, preferendo la turnazione costante di truppe statunitensi. Insomma, la conferma di quanto detto giorni fa dal Think Tank Stratfor: l’Europa è ormai ”inaffidabile”. Resta da chiedersi chi l’ha portata a questo punto.

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